In my room

All-focus

Ci arriva tardi, il sole, nel mio studio. A distanza di ore dal suo sorgere, laggiù nelle piane d’Emilia, dopo aver risalito lentamente il crinale delle montagne. L’ultima delle quali, la salita finale, torreggia verde e arrotondata di boschi dimenticati, proprio di fronte alla finestra, ad un metro e mezzo dalla scrivania. E ci rimane poco, il sole, nel mio studio, per poi nascondersi di nuovo tra le querce che circondano casa. 

Poco male, in fondo. La luce algida del MAC e quella, più rassicurante della lampada da tavola, qui alla destra della tastiera, nell’angolo estremo della scrivania, bastano e avanzano. E quando proprio ho bisogno di vederci meglio, sfogliare un libro o baloccarmi con le note di copertina di un album, posso sempre accendere l’applique fissata allo scaffale dei CD e sistemarmici sotto, nella poltrona rossa. 

Già, lo scaffale dei CD. Gli scaffali, anzi. Sono tre in tutto, due a riempire altrettanti lati dello studio, il terzo incastrato a sinistra della finestra. E anche loro danno una mano a trattenere le ombre, soprattutto quello più grande, di legno scuro dai riflessi del mogano, lungo chessò tre metri con accanto, strizzato nell’ultimo tratto di parete, il fratellino minore nel quale fanno bella mostra le musicassette, anch’esso dello stesso legno. Ma anche gli altri, che pure sono di legno bianco, uno di fronte all’altro sui lati corti della stanza, carichi come sono di CD, ma anche tape reel, DVD, VHS e oggettini rock related, non brillano certo per la loro luminosità.

E proprio a loro, e al sole sdegnoso che snobba regolarmente la mia finestra, soprattutto in questi mesi del lungo freddo che taglia a metà l’anno e le stagioni, va gran parte del merito di aver trasformato una stanza come un’altra nel mio studio, rifugio/galera ove trascorro, per scelta e per necessità, la gran parte delle mie ore attive, soprattutto ora, ai tempi del lavoro smart. A loro, a queste librerie musicali, ma anche alle due scrivanie montate in angolo, e alle mensole, più in alto, cariche di libri, rock related anch’essi, ovviamente. 

Non ho alcun merito, diciamolo chiaro. Tutto ciò che sta dentro a queste quattro pareti mi segue ormai da oltre trent’anni, ed è salito con me dalla città qui sull’Appennino, dove sono ora. Ed è stato ricollocato qui non per caso, ma grazie ad una sapiente regia architettonica, che devo alla mia compagna di vita, mia moglie. Credito obbligatorio, questo, ed ineludibile. Ma non è a lei, che pure ne avrebbe ben diritto, che queste righe rimandano per sineddoche. 

Perché quegli scaffali e tutto il resto sono il frutto della fantasia e del lavoro di un uomo che di mestiere non faceva il falegname, anche se il legno ha occupato uno spazio importante nella sua lunga vita. Lui, Pietro, di mestiere faceva il padre. Mio padre. E lo ha fatto sino a pochi giorni fa, per 60 troppo brevi anni. I primi 60 della mia vita, gli ultimi 60 per lui. 

E oggi, seduto qui alla tastiera, circondato da queste librerie, le braccia appoggiate su questa scrivania, mi pare d’essere al sicuro. Non più galera ma rifugio, questa stanza mi avvolge nella sua penombra, un riparo confidente e amico. Solido e immutabile. Di legno e cuore. 

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